il terremoto degli adolescenti…

…. la logica degli aiuti

di Luisa Nardecchia, su “il Capoluogo”, 29 aprile

http://www.ilcapoluogo.com/site/content/tipafriend/9564

Il Liceo Bafile, quest’anno, è stato aperto tutti i pomeriggi per consentire ai ragazzi di avere un punto di studio e di recupero permanente. Ma i ragazzi, a “Scuolaperta”, non ci sono venuti volentieri, le aule erano semivuote. Le aspettative su questo progetto erano tante, tante le risorse impegnate: abbiamo pensato che i ragazzi avrebbero cercato nella scuola un punto di riferimento per creare gruppi di studio e di interesse. E invece niente.

“Tu come passi il tempo libero?” è stata la domanda che ho posto più frequentemente durante l’inverno. “Quando è possibile andiamo nelle case di chi ce l’ha. Chi ha una casa vera, senza puntini, invita qualche amico, un po’ per volta, si fa a turno”. E già, il tempo libero è libero. E a scuola non ci vengono proprio perché deve essere libero. Liberamente si associano in piccoli gruppi spontanei. “Ma gli scambi, gli interessi, fare musica, passeggiare, incontrare?” chiedevo preoccupata. “C’è il cinema, ogni tanto. E ci sono i locali sul Viale della Croce Rossa, di sera, in genere il sabato. “D’accordo, questo lo sappiamo, ma come può essere che non vi organizzate, che non vi inventate qualcosa di diverso da proporci, per aiutarvi a realizzarlo?”. “Non siamo abituati” mi ha risposto Giacomo. C’era un tono di dispiaciuto rimprovero, in quel “non siamo abituati”.

E mi sono chiesta quanta responsabilità abbiamo noi adulti in questa incapacità. Mi è tornato in mente quel consiglio comunale che avrebbe dovuto deliberare la sistemazione del porticato sotto la nostra scuola per uno spazio polifunzionale, consiglio mai concluso per abbandono dell’aula dei consiglieri e conseguente mancanza del numero legale. E mi viene in mente non per fare polemica spicciola, ma solo perché in quella occasione la reazione dei ragazzi attraversò tre stadi: prima si infuriarono e chiesero spiegazioni; poi ascoltarono le spiegazioni in silenzio; infine mugugnarono feriti e non fecero più nulla.

Ragionevoli e composti, come abbiamo sempre chiesto loro di essere. “Non avete provato a proporre qualcosa attraverso i vostri rappresentanti?” indagavo, per pura curiosità. ”Sì sì, certo, eccome! Abbiamo ottenuto un grande successo!” “Bene, questo mi fa molto piacere! Quale?”. “Il sabato sera verrà chiuso al traffico il Viale della Croce Rossa!”. Resto di sasso. Ma come? All’inizio dell’anno il loro obiettivo era smantellare Viale della Croce Rossa! (prima fase). Poi hanno accettato l’ineluttabile condizione di andarci (seconda fase); infine hanno smesso di chiedere alternative, facendoselo pure piacere! (terza fase). Si sono adattati. Perché l’unica cosa a cui li abbiamo davvero abituati, è ad abituarsi. Ad accettare le situazioni, a colorarle con la loro straordinaria fantasia, fino a farsela piacere. “Flessibilità! Flessibilità! Il mercato del lavoro richiede flessibilità!”

Li abbiamo cresciuti a gran voce così, per capire poi, in queste situazioni di emergenza, che non funziona, che non è giusto, che non sempre è giusto adattarsi, se ci si adatta al peggio. Ho capito che nonostante tutti gli sforzi fatti dalla scuola, gli adolescenti aquilani sono pressoché costretti a crearsi delle vie di fuga mentali. La scuola non può essere tutto e non va delegata di tutto: ai ragazzi dobbiamo lasciare il sommerso, quello che si fa “sottobanco”: chiacchierare, passeggiare, e perché no anche un po’ bighellonare. Ecco perché guardano con sospetto l’extracurriculare che a scuola gli mettiamo sul banco, come fanno con quello che a tavola gli mettiamo nel piatto. E non lo mangiano. Fanno meno fatica in questo modo, che a cercare di chiedere parola presso gli adulti, troppo “occupati” per ascoltare questi piccoli cittadini.

Gli adulti, gli “occupati” di Seneca. Siate seri ragazzi, c’è stato un terremoto, i grandi hanno da fare. Vai ragazzo, lasciami lavorare. In tanti piccoli si sono chiusi in camera, passano il loro tempo a navigare in un mondo virtuale, incontrando i lupi cattivi e girando dentro i vortici di misere trappole mentali. Un mancato invito a una festa diventa un affronto insuperabile che scatena rancori orribili, perché a quella festa non c’è un’alternativa da contrapporre per consolarsi.

E noi abbiamo troppo da fare per capirli. Ci siamo illusi che concedere la “normalità” scolastica bastasse a dar loro un equilibrio. A scuola abbiamo dato un esempio di grande serietà, continuando a lavorare “come se”, e fornendo psicologi di sostegno. Bello, quel “come se”. Come se non ci riguardasse, dico io. Come se inchiodarli al libro fosse una soluzione. Ci siamo girati da un’altra parte per non vedere tanta sofferenza. Anche dopo un terremoto, noi continuiamo a considerare gli adolescenti dai 14 ai 17 anni come dei cretinetti che non si vogliono impegnare e cercano divertimento facile, pub e discoteche.

Fastidiosi che sono, a quest’età, vero? Né grandi, né piccoli. Come Alice, ora si sentono giganti, ora nani. Perciò, non avendo loro stessi una reale percezione di sé, non li vediamo “seri” e degni di essere ascoltati. Da una prima, semplice ricognizione dei lavori presentati dai ragazzi per il Progetto “L’Aquila 2019”, ideato e bandito dai docenti del Bafile, (l’unica cosa che la scuola possa fare, come sempre, è “impegnarli” in positivo) è emersa tanta sofferenza, specie nei piccoli di 14-15 anni. Tanta nostalgia e anche tanta voglia di fare. I lavori, per ora solo raccolti e numerati per la imminente consegna alla giuria, presentano un’immagine del passato della città prepotentemente superiore all’immagine del futuro. Perché questi adolescenti la città l’hanno vissuta, se la ricordano bene. Tra le righe si legge solo un doloroso vorrei che non fosse mai successo.

Troppo grande per loro. Non riescono a gestirlo. Nei progetti architettonici, invece, tante proposte costruttive: vogliono spazi di cultura, spazi per leggere, guardare DVD, discutere, trovare angoli di ristorazione con cucina straniera, ricostruire una piazza, un passeggio… Un passeggio. Che ne sarà di questi loro bisogni? Accadrà che “caleremo sopra” ai ragazzi le nostre scelte adulte e serie?

Mi viene in mente la storia di certi interventi umanitari in Africa: gli evoluti paesi ricchi videro che in un villaggio africano le donne dovevano percorrere 10 km di strada, alla sera, per andare a prendere l’acqua in un pozzo. Gli aiuti misero su una task force e in breve costruirono un avveniristico e costosissimo acquedotto. Ma le donne continuarono, alla sera, a prendere le giare, a mettersele sulla testa e farsi i loro 10 km a piedi per prendere l’acqua dal pozzo. Furono mandati degli antropologi, per cercare di capire il perché. E si scoprì che quei dieci chilometri, per le donne del villaggio, costituivano l’unico momento di riposo, di chiacchiera, di passeggio. E’ quello che faremo? Costruiremo anche noi acquedotti inutili per i nostri ragazzi, dove loro si rifiuteranno di andare? Apriremo le scuole tutto il giorno per vederle poi deserte? Li abitueremo ad abituarsi?

Suggerisco da sola i commenti, li so già. “Eh, questi ragazzi, vogliono sempre la pappa pronta! Non è vero niente, per loro abbiamo fatto questo e quello, gli abbiamo dato questo e quello…” Certo, anche noi li abbiamo scarrozzati e impegnati. Ma è sufficiente? E poi, la madre di tutte le repliche: “Che educatori sono quelli che incoraggiano al passeggio invece che a studiare!”. E io allora dico che noi adulti, il nostro passeggio, a quell’età, lo abbiamo avuto. I portici, la colonna, lo “struscio”, la piazza, li abbiamo avuti. Siamo onesti, avete già dimenticato? la giornata non era passata, se prima non s’era fatto “un giro”. E conoscevi le persone per caso, non perché ci andavi a sbattere col carrello della spesa. Le incontravi e basta.

Ora che cosa succederà?

Gli costruiremo nuovi posti per spendere meglio la loro paghetta?

Costruiremo per loro tanti begli acquedotti costosi?

Non so che cosa augurarmi: che si adattino a girare il rubinetto che gli metteremo davanti, o che trovino un modo per andare a prendere l’acqua dove gli pare.

A piedi.

4 Risposte to “il terremoto degli adolescenti…”


  1. 1 Claudia 29 aprile 2010 alle 20:35

    Martedì 20 ottobre 2009

    Sono passati tantissimi giorni da quella maledetta Notte, e tutto mi sembra ancora un brutto sogno.
    Oggi ho ripercorso via “XX settembre”, e per l’ennesima volta a stento ho trattenuto le lacrime. Un boato mi è risuonato nell’anima impedendomi di osservare, ciò che avevo attorno, con attenzione. Ma quando l’ho guardata meglio, ho tristemente realizzato che la mia città è letteralmente in ginocchio. Tra le sue strade ferite, le speranze e i ricordi si fanno unico rumore, un rumore che sembra non fermarsi mai,un rumore che fa male. Malissimo.
    Non riesco più a spiegarmi come ho fatto a non rendermi conto che, prima del 6 aprile, avevo tutto. Ero felice, le piccole questioni quotidiane, che nel momento in cui le vivevo sembravano banali, adesso mi mancano e mi lasciano dentro silenzio.
    Il silenzio di trecentosette sorrisi.
    È incredibile come tutti quei sorrisi, con un attimo sono andati chissà dove, ma comunque lontani da me, da noi, da quello che è stato.
    Nessuno riuscirà mai a rimediare all’infinita e lacerante cicatrice che quella Notte ha lasciato dentro a tutti noi. Restare immobili a guardare amici, conoscenti, lavori, sacrifici, millenni che crollano in pochi attimi, attimi in cui tu non hai la forza per fermare tutto, non hai la forza per reggere le tue case, le tue chiese, salvare la tua gente, ma sei li immobile.
    Questo è il vero dolore. L’impotenza davanti al disastro.
    Ricordo solo occhi gonfi di lacrime e dolore, preghiere e suppliche verso il cielo, urla disperate e straziate, telefonate brevi e incomplete. E tu lì, di nuovo immobile, di nuovo impotente, piangi.
    Piangi finche le lacrime ti sgorgano dagl’occhi.
    Urli di dolore finche hai fiato nei polmoni…
    Non riesci a respirare perché l’aria di questa città è cambiata quella notte, ormai tutto sa di polvere.
    Poi incosciente riprendi le macerie della tua vita e provi a ripartire,a guardare avanti. Mancheranno mani nel rimettere in ordine ogni pietra, mancheranno sorrisi a lavoro compiuto, mancheranno anime nella nostra vita.
    E per loro vogliamo e dobbiamo crederci.
    Per loro guarderemo avanti, per non dimenticare mai più i loro occhi.
    Io, sono giovane ho ancora tutta una vita da costruire e voglio ricostruirla qui, All’Aquila, la mia città. Mia e di tutti gli altri ragazzi come me, perciò spero che non ci tolgano la possibilità di viverla, lasciandocela guardare solo da lontano….

  2. 2 Mattia 30 aprile 2010 alle 00:03

    eh…che bei ricordi la mia adolescenza nel mio centro…noi del vicolaccio che ci contrapponevamo a quelli dei portici di San Bernardino…gli appuntamenti ai quattro cantoni o davanti al Rex (anche se da anni era la Benetton)…si noi la nostra L’Aquila ce la siamo vissuta bene…e anche se ci manca il centro, ora abbiamo altri hobby, altri punti di incontro e il nostro caro centro storico ci manca ma riusciamo a starne senza!

    Pensiamo però ai ragazzi oggi…mi fanno tenerezza quando li incrocio nell’angolo più nascosto del parcheggio di qualche centro commerciale che provano a ritagliarsi un angolo di intimità con la fidanzatina di turno…e noi invece che potevamo offrire alle nostre “belle” la piazzetta romantica il parco del castello o le edicole di San Bernardino!

    Loro sono la categoria più colpita dal terremoto…e si adattano, non hanno la forza di reagire…non è l’età giusta! ora che a trent’anni siamo considerati junior, a 15 o 17 la società ci considera bambini, e i bambini non hanno la forza di controbattere ai grandi e possono solo adattarsi!

    Io sto dalla loro parte, li comprendo pienamente e so che forse hanno scelto la via che gli darà una parvenza di vita normale, che li aiuterà a vivere la loro adolescenza e non li critico se non combattono…perchè effettivamente non ne hanno i mezzi!
    Vanno aiutati dai grandi che devono combattere anche per loro, sono i grandi che li hanno resi eterni bambini ed ora devono prendersi carico di questo insegnamento sbagliato!

  3. 3 Fabrizio 30 aprile 2010 alle 00:55

    è da molto che ci penso, che penso al tempo libero a L’Aquila per i ragazzi costretti a sublimare nella rete l’assenza di luoghi oppure a vivere in posti strani “ad uso e consumo delle piccole mediocrità acquistabili” quali sono i centri commerciali (e diciamo centri commerciali perché ad essere consapevoli sono riproduzioni mignon dei CENTRI COMMERCIALI).
    Centro commerciale, ossia centro dove si fa commercio? Come una piazza quando c’è mercato? Non è così vero? E già, non è così… Ma come ci si ribella oggi? Perché non si dice a chiare lettere che la città deve essere ripensata? Io per esempio avevo un’idea, un’idea piccola e legata alla mia memoria: non si potrebbe per esempio far insediare i locali (la baraccopoli di viale della croce rossa ovvero la sfigatissima Las Vegas aquilana) dentro Parco del Sole e tra Parco del Sole e la Villa Comunale? Immaginiamo che lì si trasferiscano dei locali (ora non vorrei fare la mia pipparda sui luoghi della socialità e del ritrovo dei giovani aquilani partendo dalle colonne politiche (anni ’70), passando alle colonne di paese (anni ’80) per poi naufragare negli anni novanta, di globalizzazione e contaminazione, che si rappresentarono nel grande flusso magmatico del su e giù per poi sfociare nelle piazzete dei locali disegnanti nuove aggregazioni per affinità (se siete riusciti a leggere tutto questo pensiero e siete riusciti a capirlo vi offro una birra…)) ma insomma,come dicevo prima di perdermi nei discorsi che mi cito quando voglio suscitare interesse, immaginiamo lì dei locali e che magari questi locali in qualche modo si consorzino e organizzino insieme degli eventi…come una festa dell’unità permanente gestita dai commercianti e dai gestori dei locali, dalle associazioni culturali etc…si potrebbe fare? E perché il famoso teatro di Renzo Piano non chiediamo di metterlo lì? E perché la parte bassa di Parco del Sole, che è già un anfiteatro al naturale, non viene risistemata per farne, guarda un po’, un anfiteatro quasi al naturale ma certamente più comodo? Oh, ma che bello Bibi! Il fine settimana si possono sentire concerti, il pomeriggio si può stare in un parco e magari ci sarà chi allestirà una mostra oppure qualche fenomeno che si metterà a recitare poesie come all’ Hyde Park. Non so’ cosa accadrà ma sicuramente potrebbe essere uno spazio libero, non preconfezionato…uno spazio “aggiustabile” giorno dopo giorno uno spazio che tanti ragazzi potrebbero sentire come il loro…e ci sarà chi organizzerà una partita a pallone, chi si sdraierà con la fidanzatina, chi si infratterà con un cannone, chi parlerà delle cose di cui parlano i ragazzi lungo un muretto. Domani (oramai oggi) facciamo una riunione, alle 19:00 a Piazza regina Margherita…io vorrei parlare di questo. Vorrei parlarne non in maniera chiusa, al contrario, in maniera apertissima … magari (sicuramente) ci sarà chi avrà proposte migliori, magari localizzazioni più adeguate etc. Una volta elaborata un’esigenza e una cosa che non è una proposta ma, diciamo, un ventaglio di proposte, si potrebbero coinvolgere altri attori (tra cui le istituzioni, i gestori dei locali, le rappresentanze studentesche etc e allargare l’immaginario collettivo…infine, individuato il “fattibile”, spingere affinché si faccia… Penso che la serata con Alessia a base di buon vino bianco abbia fatto effetto e che la stanchezza e la responsabilità del risveglio stanno prendendo il posto al delirio…buonanotte

  4. 4 Giovanni Panichi 18 dicembre 2014 alle 16:37

    Non possiamo, non sappiamo e non vogliamo addossarci le colpe delle insoddisfazioni dei nostri figli e dei loro compagni adolescenti. Ma dovremmo. Dovremmo considerare l’atra parte di noi, quella che abbiamo generato e che diamo per scontato dovrà essere il nostro futuro. Già, il futuro. Se nel resto del Paese il futuro è incerto per le nuove generazioni, da noi, invece, assume la caratteristica ben delineata del fare fagotto.
    Una città che non è morta con il terremoto, ma con quanto i suoi tristi abitanti hanno messo in scena negli anni successivi.
    Tornano a casa i nostri figli, carichi di problemi che sono profondamente diversi da quelli che noi avevamo.
    Badate, avere di meno implica desiderare di meno. Ma non smettere di desiderare.
    Noi desideriamo ciò che vediamo. Il primo nostro impulso sta nel cercare con gli occhi di soddisfare i nostri bisogni.
    Lo sguardo alla realtà con i loro occhi è deflagrante. Si abituano? si, forse. Non si ribellano? certo, anche. Ma perché? Noi ci ribelliamo, da adulti? Siamo davvero in grado di dare un senso comune alle nostre esistenze in quanto comunità? E poi, ma quale comunità?
    Non giudico e non voglio giudicare, nemmeno sindacare l’operato di nessuno. Sinadacare, poi, in questo Paese, a cosa serve?
    Voglio solo rimarcare che la colpa dell’insuccesso dei nostri figli è solo nostra, di questa buffa generazione di ormai cinquantenni che sui social imperversano quali novelli rivoluzionari e nella vita reale fanno la fila a raccomandarsi al potente di turno.
    E questo vale per tutte le classi sociali che compongono questa città. Cambia solo il tenore, l’ammontare e l’aspettativa della richiesta.
    In fondo i fallimenti sono più accettabili se hai una spalla su cui piangere. E le famiglie sono diventate la spalla dei loro ragazzi.
    In questi anni ho ascoltato centinaia di buone ragioni per giustificare, giustificarsi. In realtà erano centinaia di scuse.
    Ricordo adunanze collettive da psicanalisi sotto tende, all’aperto o in improvvisate manifestazioni in cui si diceva dobbiamo fare qualcosa pur essendo inconsciamente convinti di fallire. In realtà, si preparavano gli alibi, si chiedevano consigli ad altri per poter far ricadere su di loro la responsabilità del fallimento.
    Questo il leitmotiv della città, dei suoi abitanti, dell’amministrazione cittadina, dei comitati antagonisti (ma di cosa? di se stessi in fondo), delle famiglie e dei ragazzi alla fine ultimi spettatori.

    Ho sempre tentato. Ho sempre fallito. Non discutere. Fallisci ancora. Fallisci meglio. Samuel Beckett, Worstward Ho, 1984


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